Studio Legale Pistone

Put option e patto leonino nelle società di capitali: divieto o liceità?

La struttura dei suddetti accordi, generalmente stipulati all’atto dell’ingresso nella compagine sociale di un “socio finanziatore”, prevede che a beneficio di quest’ultimo sia convenuta un’opzione di vendita della partecipazione sociale ad un prezzo predeterminato.

Lo schema negoziale in argomento pare ricomprendere, oltre al valore di acquisto, anche una remunerazione (corrispettivo put) del capitale investito sotto forma di corresponsione di interessi. 

Una siffatta impostazione, in aderenza al primo orientamento, costituirebbe una potenziale violazione del divieto di esclusione del socio dalla partecipazione alle perdite sancito dall’art. 2265 c.c., stante la sostanziale garanzia di recupero dell’investimento, rinvenibile nei correttivi previsti per l’esercizio della opzione di “put”.

In altri termini, in una operazione di investimento così concepita, il “socio investitore” non parteciperebbe ai rischi connessi anche ad eventuali perdite, alterando nella sostanza l’oggetto e la causa del contratto, che assumerebbe – invece – la funzione di un finanziamento.

In questo senso, pare utile evocare il seguente principio di diritto, tale per cui: “il divieto di esclusione dalla partecipazione agli utili o alle perdite deve essere riguardato in senso sostanziale, e non formale, per cui esso sussiste anche quando le condizioni della partecipazione agli utili o alle perdite siano, nella previsione originaria delle parti, di realizzo impossibile, e nella concretezza determinino una effettiva esclusione totale da dette partecipazioni”.

Appare di primaria importanza, e pertanto non trascurabile, la circostanza per cui affinché una determinata fattispecie possa essere elusiva del divieto di patto leonino, ovvero di integrarlo, gli accordi contenuti nella scrittura dovranno essere tali da:

  • assicurare l’assoluta e costante (per l’intera durata della partecipazione) esclusione del socio finanziatore dal rischio di impresa:
  • non far emergere alcun ulteriore interesse meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c.

Il complessivo impianto negoziale in disamina pare orientato ad un trasferimento del rischio dal finanziatore divenuto socio al socio che tale finanziamento lo ha ricevuto mediante il patto con clausola put. L’impostazione così determinata è tale da produrre un’assoluta e costante esclusione dell’alea tipica dell’investimento finanziario, e pertanto non meritevole di tutela.

Tuttavia, le problematiche sorgono con riferimento all’ipotesi di un prezzo di vendita predeterminato.

Ebbene, secondo la giurisprudenza testé citata, infatti, tale costrutto negoziale garantirebbe la certezza di recuperare ogni investimento effettuato, rendendo l’opzionario insensibile alle vicende sociali, spogliandolo del rischio di impresa. Un tale assetto poi potrebbe anche aprire ad un potenziale conflitto di interessi rispetto agli altri soci, per l’assoluta neutralità (indifferenza), dal punto di vista economico, da cui sarebbe caratterizzata la sua partecipazione al voto.

Alla luce del superiore orientamento, la lettura del contratto risulterebbe tale da sterilizzare il rischio di perdita del conferimento effettuato dall’investitore titolare della put option, che si garantirebbe la certezza di recuperare l’importo investito al momento di esercitare la put..

In questo senso, sul piano economico, un eventuale  divieto di distribuire utili costituirebbe una ulteriore garanzia rispetto alla situazione di bilancio della società partecipata, che nell’impossibilità di ripartire i dividendi eventualmente conseguiti, vedrebbe crescere il proprio patrimonio netto. 

Elemento, quello del patrimonio netto, che assurge di solito a parametro per la determinazione del “corrispettivo per la put.  

In altri termini: solo chi gode dei vantaggi (divisione degli utili) e al contempo subisce gli svantaggi delle scelte effettuate (rischio di perdite) sarebbe spinto a prendere decisioni equilibrate e coerenti con un corretto esercizio dell’attività sociale.

È parimenti utile precisare che la struttura tecnico-giuridica di un  contratto in così sé non solleva dubbi di legittimità, richiamandosi alle norme del codice civile.

Tuttavia, richiamando il precedente principio di diritto, tale per cui l’interesse perseguito dalla norma deve essere tutelato non solo formalmente, ma anche e soprattutto sostanzialmente, si renderà necessario estendere le riflessioni connesse al divieto contenuto all’art. 2265 c.c. anche rispetto all’ipotesi in cui il risultato vietato sia raggiunto tramite di schemi negoziali di per sé leciti.

Sul punto, la giurisprudenza, evocando l’art. 1344 c.c., ha statuito l’invalidità anche di quegli accordi extrasociali, autonomi rispetto al contratto societario, il cui esito finale sia quello di escludere taluno dei soci dai profitti e dalle perdite, strutturando l’operazione nel suo complesso come un negozio in frode alla legge.

Avv.Alessio Pistone

Avv. Giuseppe Civiletti